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Chi sta in carcere racconta che poche cose come lo sport aiutano a sopravvivere alle sue miserie. Racconta come sudare sia salvifico per l’anima, come correre curi il corpo, e perché anche una mini partita basti a spogliare la giornata dalla noia che in carcere tormenta più dei distacchi. Un progetto di ricerca ambizioso in nome dello sport che libera tutti, a partire da chi sta dentro, è stato lanciato nelle carceri milanesi grazie al Politecnico di Milano. Si chiama ACTS A Chance Through Sport, è condotto da tre diversi dipartimenti dell’ateneo e negli ultimi mesi ha piantato le radici soprattutto nel carcere di Bollate, appena fuori Milano, un luogo che, per dichiarata scelta di chi lo ha modellato, non ha pari nel nostro Paese, visto che da vent’anni pratica un modello di gestione a custodia attenuata che punta sulla responsabilizzazione dei detenuti, sul superamento del mero controllo fisico da parte degli agenti a favore di una vigilanza diffusa tra tutti gli operatori del carcere, sull’osmosi possibile tra chi sta dentro e chi è fuori. In questo luogo di visione dove il senso di tutto non è subire la detenzione, ma viverla attecchisce dunque il pensiero di ACTS A Chance Through Sport che,  a un anno di distanza dall’aggiudicazione del premio, fa i conti con le sue applicazioni, attraverso la testimonianza di Andrea Di Franco, professore associato in Progettazione Architettonica e Urbana del Politecnico. 

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Professor Di Franco, facciamo un balzo indietro. Dove comincia la storia di A Chance Through Sport?

Da un concorso indetto dal Polisocial, la struttura del Politecnico di Milano che applica il sapere universitario alle tematiche sociali e che, ogni anno, premia progetti di ricerca e li finanzia. A Chance Through Sport è stato tra i vincitori, lo scorso anno, del concorso indetto sul tema dello sport come opportunità di inclusione sociale.

 

Peraltro, lei già lavorava da tempo sulle carceri. La celebre “casetta rossa” progettata per il carcere di Bollate e allestita nelle sue aree verdi (è uno spazio per l’incontro con i famigliari, soprattutto i figli piccoli) è una creatura sua e frutto dell’attività laboratoriale degli studenti, che hanno agito in connessione con le persone detenute. Cos’è a muovere questo suo interesse per un contesto così difficile? 

 

Ho sempre creduto nell’architettura come pratica sociale, come strumento di miglioramento della vita delle persone e quindi ho sempre sentito il bisogno di architettura negli spazi delle carceri, che sono luoghi assolutamente remoti nella percezione di chi sta fuori, rappresentando forse la più grande rimozione sociale dei nostri tempi. E infatti sì, da qualche anno sono a capo di un gruppo di ricerca che, dentro il Politecnico, lavora sulle carceri con la convinzione che sia un luogo dove è necessario fare degli sforzi per modificare le pratiche e gli spazi esistenti, affinché il carcere diventi a tutti gli effetti un luogo al servizio della società. Con ACTS abbiamo puntato a un progetto ambizioso che, intervenendo sulle case di reclusione di Opera e di Bollate, nonché sull’Istituto penale minorile Beccaria, promuova lo sport non più come pratica occasionale, ma come un progetto più ampio e organico che faccia dell’attività motoria e sportiva anche uno strumento di relazione e socializzazione, di miglioramento effettivo del benessere fisico e psicologico delle persone, e naturalmente di riqualificazione degli spazi.

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E infatti per costruire ACTS avete modificato e arricchito la squadra: oggi sul progetto stanno lavorando tre dipartimenti del Politecnico. Che contributo stanno dando i tre gruppi di ricerca? 

Oltre quello di Architettura e Studi Urbani di cui faccio parte io, stanno prendendo parte al progetto anche il dipartimento di Design della Comunicazione e quello di Elettronica, Informazione e Bioingegneria. Infatti, oltre che sullo spazio e le pratiche relative allo sport su cui stiamo lavorando noi, abbiamo voluto intervenire sulle strategie di comunicazione per costruire e facilitare le relazioni con le persone detenute, gli agenti penitenziari, l’amministrazione. Infine, abbiamo puntato a introdurre il tema della salute e, in particolare, del monitoraggio delle condizione fisiche di detenuti e agenti, attraverso la messa a fuoco di dispositivi idonei.

 

Avete applicato la pratica del progetto partecipato in un luogo che, perché segnato da un imprescindibile bisogno di vigilanza, sembra ostacolare per sua natura le libere osmosi tra le parti. Come avete agito? 

Da subito ci era chiaro che per la riuscita del progetto era estremamente importante attivare la partecipazione di tutte le parti in causa, intendo quindi i detenuti e le detenute – che già sono due mondi a parte – quindi gli agenti, le strutture amministrative, quelle regionali, nazionali… tutti pezzi di un dialogo che spesso si interrompe e che difficilmente funziona. Dunque, il primo passo era diventare facilitatori di questa possibilità, per cui da subito abbiamo cercato di mettere a fuoco un metodo per comunicare il nostro progetto dentro il carcere e attivare domande per ricercare risposte.

 

Ha funzionato?

Assolutamente sì, e nonostante le difficoltà provocate dalla pandemia, che in un contesto bloccato come il carcere ha procurato disagi enormi e, come si sa, fortissime tensioni. Direi, però, che ci siamo riusciti e ne abbiamo avuto prova il 19 marzo, quando abbiamo presentato il lavoro fatto e abbiamo attivato su questo una discusione: la prova della riuscita è che ci hanno partecipato proprio tutti, dal Presidente del Garante Nazionale per i diritti delle persone private della libertà fino alla rappresentante delle detenute che hanno aderito al nostro progetto, passando per l’ASD Social Team Polizia Penitenziaria (è un’associazione sportiva dilettantistica fondata da alcuni agenti).

 

A proposito di domande: persone detenute e agenti sono stati intervistati in maniera molto puntuale sulla loro relazione con l’attività fisica. Dai risultati di questa mappatura emerge che la grande maggioranza vive lo sport come attività imprescindibile. 

Ha ragione, è così, ciascuno ha portato motivazioni importanti. Io sono stato colpito da quegli aspetti della ricerca che mettono in luce come alcune persone detenute sentano la responsabilità di diventare attivatori di interesse verso la pratica sportiva nei compagni meno convinti o assidui, consapevoli come sono che l’attività fisica e lo sport possono essere veramente efficaci per alleviare i disagi psicologici: non dimentichiamo che in carcere gli episodi di suicidio o di autolesionismo sono dieci volte superiori alla media di fuori. Io credo che l’idea di una comunità che si raccoglie con la scusa dello sport possa diventare molto salvifica.

 

Avete formulato una serie di azioni. Partiamo dalle azioni minime, quelle realizzabili nell’immediato.   

Le azioni minime coinvolgono spazi già esistenti, ma che non sono necessariamente destinati alla pratica sportiva e sono liberamente frequentati – un esempio sono i corridoi – e materiali ed attrezzature che sono di facile reperimento e gestione. Il primo intervento sarà dunque attrezzare le pareti di alcuni corridoi con strumentazione basica da palestra, che possa supportare diverse forme di attività: l’idea è, insomma, equipaggiare la struttura di una palestra diffusa e sempre accessibile per stimolare il movimento. Pensiamo anche di individuare dei piccoli spazi chiusi dove ricoverare gli attrezzi che diventino presidi comuni e luoghi simbolici in cui ciascuno possa esercitare la cura sui beni usati da tutti.  Ragionevolmente, il primo intervento sarà fatto nell’area femminile, dove progettiamo di attrezzare la parete per la pratica della ginnastica dolce, per la quale si prevede il coinvolgimento di una volontaria-insegnante di Pilates che conduca lezioni settimanali.

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Sono poi previste azioni più impegnative, di implementazione architettonica. 

L’obiettivo è favorire la pratica sportiva in sicurezza dei luoghi dove già si fa sport e ampliare il ventaglio delle discipline sportive a cui i detenuti possono dedicarsi: si tratta di interventi che spaziano dalla realizzazione di nuove pavimentazioni per i campi da sport alla creazione di varchi nei muri interni dei cortili demolendo porzioni di muratura, in modo da creare aperture attraverso cui implementare percorsi podistici e che siano anche significative sul piano simbolico.

 

Ma vi spingete anche a ipotizzare un padiglione polifunzionale, una pista MTB e un velodromo. Li definite “progetti possibili”. Possibili significa realizzabili? 

Ora stiamo immaginando una grande, nuova palestra che prenda il posto delle palestrine, davvero minuscole e scarsamente equipaggiate, oggi ricavate nei singoli reparti. La immaginiamo completamente vetrata e posizionata nello spazio verde, in modo da consentire di fare sport tutto l’anno restituendo l’idea di muoversi in una dimensione naturale, perché i detenuti raccontano il bisogno di natura, di spazi verdi, di luoghi vivi: stiamo studiando come trovare i fondi necessari, insieme al Ministero della Giustizia.

 

Quanto è replicabile il progetto ACTS in altri istituti di pena? 

Il nostro lavoro ha, per prima cosa, puntato a definire un metodo di progetto per dotare gli istituti di pena di spazi architettonici e di attrezzatura per la pratica dello sport. ACTS è una sperimentazione dalla quale dedurre per confronto delle possibilità di progetto anche in altre strutture. Il carcere di San Vittore potrà essere la prossima tappa.